Come è composto il nostro ecosistema?
Animali e vegetali che lo compongono sono in parte autoctoni (“nati qui”, “qui da sempre”), in altra parte stiamo convivendo con specie sempre più diverse, a volte volute (come quelle che coltiviamo: il pomodoro o il mais; o come gli animali da importazione, da lavoro o da compagnia), altre volte sono capitate qui, o introdotte clandestinamente (il pesce siluro, le nutrie, o l’hyphantria, solo per fare alcuni esempi di specie invasive).
Non sempre quello che è autoctono, o indigeno, è “amico” (mosche e zanzare sono autoctoni, come molti parassiti; o come molte patologie, talvolta causate da danni provocati dall’uomo all’ecosistema).
Non sempre quello che è nuovo, o diverso, o inaspettato, o imprevedibile, è minaccioso, ostile. È quello che capita alle erbacce. Come dicono alcuni botanici, se le erbacce sono fra noi, è perché si trovano bene, attecchiscono. E rimangono qui. Alcune di queste erbacce sono perfino utili: da loro troviamo spunti, rimedi, cibo, insegnamenti (ad esempio, i luartìs – germogli dell’humulus lupulus, o luppolo selvatico – sono ottimi per risotti e frittate; i ricci della bardana hanno ispirato l’inventore del velcro).
Comunque la pensiamo, siamo chiamati ad uno sforzo di convivenza, di rivisitazione del nostro eco-sistema di relazioni. Che non significa assenza di regole, ma una disponibilità a rivisitarle. Che ci chiama a capacità inedite di lettura del contesto, dei nuovi bisogni.
La vulnerabilità sociale, la solitudine, o alcune nuove malattie (la ludopatia, ad esempio), sono erbe infestanti, che ci chiedono uno sforzo diverso. Ci interrogano sulla nostra capacità di rispondere con nuovi strumenti, attrezzi, chiavi di lettura: sono opportunità che ci permettono di ripensare agli stili di vita, a come utilizziamo il denaro, a come diamo vita a relazioni di solidarietà; anche la crisi può essere intesa come un’erbaccia particolarmente invadente che ci racconta di noi, di come siamo, di come stiamo.
D’altra parte, la crescita rigogliosa del volontariato, con tutte le sue fatiche e con tutti i suoi entusiasmi, ci racconta della necessità, dell’urgenza di ripensare il welfare, le politiche pubbliche, di dare vita a forme diverse di solidarietà.
Di conoscere, e far crescere, le comunità locali, gli ecosistemi in cui viviamo, che sono diventati turbolenti, instabili. Che non sono più gli ambienti di un tempo: loro, e noi, siamo cambiati.
Forse siamo chiamati ad uno sforzo di consapevolezza, di comprensione di quel che accade, di accettazione delle differenze che stanno crescendo intorno a noi; che vivono insieme a noi, al nostro fianco. Quello che per alcuni è una crisi anche nel volontariato (di motivazioni, di reclutamento, dei giovani che non fanno più volontariato, come lamentano in molti) per altri è solo la mancanza di accettazione o di capacità di proposta di modi differenti di essere volontari; ma per intercettarli dobbiamo, dovremmo, essere capaci di rimetterci in gioco, di conoscere l’ambiente in cui i giovani vivono, di proporre modi e forme nuove di aggregazione, di ri-creazione. Se seguiteremo a considerare i giovani, o i nuovi volontari, come “erbacce” fastidiose e ingombranti sarà ben difficile trovare dei punti di contatto. Potremo solo nutrirci della nostra autosufficienza, fino a vedere collassare le nostre organizzazioni.
Insomma, siamo chiamati alla consapevolezza del fatto che nessuno può cavarsela da solo. Da solo non può farcela il volontariato, non possono farcela i servizi pubblici. E nemmeno potremo bearci dell’essere gli unici a reggere il welfare: dobbiamo, dovremmo, riuscire a coniugare pensieri e ipotesi operative, concrete, del quotidiano co-costruire il welfare, con la promozione dei diritti, richiedendo anche alle istituzioni di svolgere il proprio ruolo di garanti delle opportunità per tutte e tutti i cittadini.
Quello che possiamo fare, insieme, è aiutarci a capire, a comprendere; ad accogliere. A raccogliere, anche le erbacce, le novità, gli imprevisti, i vicini scomodi, i sapori insoliti; dovremmo imparare a studiarle, renderci disponibili ad ascoltare il loro racconto. E riprendere a coltivare relazioni.
*Mauro Ferrari, PhD, docente a contratto di Analisi e Programmazione delle Politiche Pubbliche Statali e Locali Università Cà Foscari di Venezia